13 giugno 2015: Un post-it sul cuore Fortitudo

ForlìCi sono cose che aiutano a mettere a fuoco i ricordi. Nella stragrande maggioranza dei casi, la musica. Le canzoni infatti, sono post-it appiccicati al calendario del nostro cuore, una specie di puntina da disegno che fissa l’emozione lì, in quel punto preciso, per sempre. Una vacanza, un bacio, un amore, una gioia, un dolore, tutto racchiuso in quelle note, come un cassetto che si riapre di scatto appena le senti. Ma anche gli eventi sportivi, che rappresentano una sorta di tassametro nella vita di un tifoso, sono parametri per orientarsi nel passato, bussole per non fare perdere la direzione alla memoria. Soprattutto se questo calendario è appeso al centro del petto di gente che vive la sua fede sportiva come ragione di vita. Di questa categoria i fortitudini ne fanno parte di diritto.

Nell’ultimo quinquennio però, per loro, per i fortitudini, ci sono stati troppi ricordi cancellabili; tanti post-it di quelli che uno vorrebbe che si staccassero presto con la colla sfumata, per essere appallottolati e gettati in un cestino della propria mente. Perché costoro, di recente, hanno perso tutto. E quando si parla di sport, anche se si tocca l’argomento Fortitudo, non è esattamente quello che un tifoso sogna, perdere tutto. Perché qui non si sta facendo riferimento alle sconfitte sul campo, o anche alle retrocessioni, qui si ha a che fare con questioni che ti lasciano senza squadra per tre anni. Senza squadra, proprio così: a quale tifoseria, nella storia dello sport, è mai successo?

A loro è successo e, ciononostante, sono rimasti in piedi. E lo sapete perché? Perché loro hanno perso tutto, questo è sacrosanto e inconfutabile, tranne una cosa. Una cosa che li vede uscire dal tunnel di questo quinquennio a testa alta, paradossalmente rafforzati, con la curva piena di giovani: loro non hanno mai perso la dignità. La dignità che non gli ha fatto dilapidare il loro tesoro più caro: il loro senso di appartenenza; la dignità di non scendere a patti con le regole avariate dello sport moderno; la dignità di dire un “no” secco, forte e chiaro, a quella vergognosa prassi della compravendita dei diritti sportivi, quella che sta silenziosamente quanto inesorabilmente uccidendo il basket italiano; la dignità di ripartire dal basso, espiando le proprie colpe, senza scorciatoie; la dignità che li ha ancorati alla propria identità, che li ha stretti intorno a uno dei loro motti storici: Nessuna tempesta distruggerà la nostra fede. Non ci è riuscita nemmeno quest’ultima orribile burrasca, nonostante si sia impegnata tanto.

E allora il 13 giugno 2015 per loro, è di sicuro uno di quei giorni da post-it, come il 2 aprile 1992 o il 30 maggio 2000 o il 16 giugno 2005, una data che può anche diventare una password, un’unica nottata che ripaga in un colpo solo di cinque anni di sofferenze.

Pochi anni fa, in tempi non sospetti di orrende battaglie fratricide, uno dei più bravi giornalisti della pallacanestro bolognese di sempre (Walter Fuochi), a proposito di fortitudo vere o presunte (e scritte non a caso con la effe minuscola), scriveva che una squadra esiste dove c’è la sua gente. Il 13 giugno 2015, a Forlì, a vivere il ritorno in serie A, c’era un popolo intero, ricompattato, di nuovo felice, che ha sostenuto incessantemente la sua squadra in una finale di quarta categoria come se fosse quella per lo scudetto. Che ha incitato senza sosta e senza fatica quei ragazzi che incarnavano il suo spirito, dieci leoni, dieci amici che si sbucciavano volentieri le ginocchia, che si abbracciavano sugli errori, che difendevano misteriosamente in sei o sette alla volta, che parevano sospinti in maniera quasi osmotica da quella marea incessante di gente, cori, sciarpe, sudore, passione, lacrime, voglia, rabbia, felicità, amore. Il 13 giugno a Forlì, c’era la Foritudo, in una serata che rimarrà nella storia, nella mente, nel cuore di chi fa di una fede sportiva una ragione di vita; una giornata di festa che sarà uno di quei post-it che non si staccheranno mai.

“Oh, ma te la ricordi l’estate io e te a Lido Adriano? Io stavo con quella tipa russa, Svetlana si chiamava, mi sembra. Soccia, che sanguisuga! Te ancora con la Mirca. Che ghigne, eravam giovani, eh? Saran passati quindici anni. Forse anche venti. Sì, sarà stato il 2018.”

“Macchè venti, di più. Ventitré. Andava quella canzone di Jovanotti, quella sull’estate. Era il 2015, son sicuro. Era giugno. Partimmo da lì per andare a Forlì.”

“Meeee, Forlì, è vero. Eravamo in tremila, forse di più. Mamma mia che roba pazzesca!”

“Te lo ricordi il secondo quarto? Con quel coro incessante che montava e siamo andati sopra di venti in un amen… Guarda qua, mi viene ancora la pelle d’oca solo a pensarci.” 

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